Nella condizione limite, quale è lo stadio avanzato del cancro, il dibattito sulle cure di fine vita è in continua trasformazione; importante diventa il riconoscimento della priorità dei problemi psicologici ed esistenziali alla base della crisi.
Mansel Pattinson, nel descrivere gli stadi di progressivo distacco del paziente con cancro in fase avanzata, indica, accanto ad atteggiamenti di sconforto e negazione della morte stessa, la presenza del forte e ricorrente desiderio di morire, che diviene necessità da realizzare e che in casi estremi giunge ad essere desiderio sentito tanto da potersi concretizzare.
E’ normale per un paziente terminale desiderare la morte?
Che ruolo giocano i sentimenti di impotenza, di disperazione, di colpa?
Sono le sofferenze fisiche, le restrizioni alla volontà e alla libertà, è l’inaccettabilità delle perdite, della speranza e del significato (della vita e della morte), o è una condizione psicopatologica a portare il paziente a dar voce a ciò che prova?
Parte della letteratura ha concentrato l’attenzione sul pensiero/desiderio di morte contro il reale intento suicidario espresso nell’ambito delle cure palliative, ed in relazione a ciò sono emerse significative differenze: Chochinov et al. hanno riconosciuto, in base ad un campione di 200 pazienti terminali, la presenza di un desiderio occasionale e fluttuante di morte nel 44,5% di essi, e solo nell’8,5% la presenza di tale desiderio era da considerarsi duratura e pervasiva.
In uno studio del 1990, Breitbart et al. su 92 pazienti hanno riscontrato nel 17% dei casi un desiderio di morte anticipata; percentuali più basse di franco desiderio di morte sono state registrate da Kelly (14% su un campione di 256 pazienti) ed Akechi (8,6% su 140 pazienti terminali). Interessante, inoltre, è stata la ricerca condotta da Morita et al. che, attraverso i ricordi di familiari di pazienti già deceduti per patologia oncologica, hanno evidenziato la presenza del desiderio di morte anticipata nel 20% di essi.
Altri dati sono emersi da una ricerca EPIC – European Pain In Cancer – presentata a Budapest nel corso del Congresso Internazionale della European Association for Palliative Care – EAPC – ed effettuata in 12 Paesi europei coinvolgendo 4824 pazienti, dei quali 457 italiani: per il 42% dei malati il dolore è risultato essere talmente insopportabile da far loro desiderare la morte; mentre nel 66% dei casi si è rivelato ostativo al punto da intralciare il condurre una vita normale, precludendo anche le semplici attività quotidiane; per la metà di essi il dolore stesso ha negativamente inciso sulla vita familiare.
In altre indagini si può notare quanto sia forte la presenza di pensieri relativi alla propria morte in correlazione a depressione e disperazione; Breitbart et al., in uno studio del 2000 pubblicato dal Journal of the American Medical Association, sottolineano come depressione ed Hopelessness (perdita di speranza), pur potendo essere considerati come possibili fattori predittivi della volontà di morire, resterebbero comunque indipendenti da essa. E Chochinov, Brown, Akechi, Passik sono solo alcuni tra gli autori che mostrano quanto una condizione depressiva in oncologia rappresenti il punto chiave che richiama la differenza sostanziale tra desiderio di morte anticipata inteso o, semplicemente, come desiderio di voler morire presto per porre termine alla sofferenza, o come ideazione suicidaria in senso clinico, espresso quindi attraverso un agito.
Il desiderio a cui viene data priorità in questo contesto è il riflesso della malattia percepita come interruzione dei progetti di vita, come cancellazione di prospettiva futura, rimozione del passato e non contemplazione del presente. E’ un desiderio che emerge sempre più forte perché la vita appare destituita di qualsiasi significato, e più la fase terminale avanza, più aumentano le perdite della persona.
La dipendenza diviene espressione di una perdita fondamentale, quella dell’autonomia, che, porta alla perdita del ruolo familiare e sociale, oltre che alla percezione del non essere più degno di sé, di ciò che si è stato per sé e per gli altri.
Il corpo, un tempo sostegno dell’esistenza, cambia di significato, perde il suo senso, trasformandosi in un “corpo che tradisce – scriveva Frankl – un corpo che non ha più diritto di essere amato e che nega l’identità stessa della persona”.
Di esso non ci si può prendere veramente cura, pensando si tratti solo di un corpo deteriorato, perché nella malattia assume le sembianze di un relitto che non risponde più ad alcun controllo; di quel corpo ci si può, d’altra parte, prender cura facendo in modo che vi si avverta la presenza di un’anima fino all’ultimo istante.
La sofferenza paralizza ogni cosa che attribuisce valore alla vita, e non a caso importanti ricerche evidenziano quanto l’individuo in condizione di malattia avverta i suoi stessi limiti e quanto il cancro metta a nudo la sua fragilità. La fragilità di un uomo che, senza più consolazione e speranza, non trova senso in una vita che si trascina e che considera nella sola prospettiva del dolore e dell’impossibilità di scelta nei suoi atteggiamenti.
Breitbart et al. nel 2000 hanno rilevato una correlazione positiva tra desiderio di morte e gravosa sensazione d’essere di peso agli altri, scarso supporto sociale, alti livelli di ansia, e consequenzialmente maggiore impatto dei sintomi fisici. Lo stesso gruppo di ricerca del Memorial Sloan-Kettering Cancer Center, in uno studio successivo, ha riscontrato in 160 pazienti in fase terminale quanto un forte senso di benessere spirituale – “Spiritual well-being” (Benessere Spirituale), non inteso in senso religioso, ma legato a libertà, responsabilità, coscienza e valori – si correli negativamente al desiderio di morte rapida e positivamente all’adattamento alla fase terminale, alla ricerca di un senso nella loro storia.
Chochinov – nel suo lavoro di chiarificazione del concetto di Hopelessness – ha sottolineato come, nei pazienti che si avvicinano alla morte, il mantenere la speranza sia intimamente connesso alla percezione che la loro vita continui ad avere degli scopi e che persista nel conservare un significato, e quanto ciò li sostenga negli ultimi giorni. Della stessa opinione sono Moadel e Brady: il primo, in un’indagine in cui si chiedeva ad un gruppo di pazienti di specificare ciò che maggiormente creava in loro preoccupazione e ciò per cui desideravano ricevere aiuto, trovò che in oltre il 40% di risposte emergeva la necessità di attribuire un senso alla propria vita, insieme al bisogno di pace mentale e speranza; il secondo ha invece rimarcato come i pazienti con cancro che mostravano alti livelli di consapevolezza del significato della loro esistenza, oltre ad avere una migliore qualità di vita, fossero più tolleranti verso i sintomi fisici (malgrado dolore e fatigue) rispetto a pazienti che riportavano bassi punteggi.
Scriveva Nietzsche che non è il dolore in sé il vero problema, ma la mancanza di risposta al grido “perché soffrire?”. E’ la sofferenza infatti che porta l’individuo a porsi domande sul senso di ciò che gli sta capitando; non sarebbe auspicabile per nessuno conservare una vita col pericolo che possa non trattarsi più di vita, e non è poi così assurdo pensare che una persona non voglia limitarsi ad esistere ad ogni costo, ma desideri esistere in maniera significativa.
Cosa ci sta comunicando, questa persona nell’assegnare un significato in tale situazione di malattia? Non sta forse cercando di trovare un senso al tempo che gli resta da vivere?